Liberal n. 49/1999
Cara Mina,
se un giovane ventenne ammazza a coltellate i nonni per impossessarsi dell’eredità, la notizia sembra quasi normale. Se un giovane trentenne muore per un tragico cocktail di droga e alcool in un rave-party nell’indifferenza generale degli altri giovani che si stordiscono con la musica a tutto volume, se ne parla per due giorni e tutto finisce lì. Ma dal Giappone rimbalza fino a noi una notizia che non può lasciarmi indifferente: una madre uccide una bambina di due anni “colpevole” di avere rubato alla figlia il posto in un asilo esclusivo. Fino a questo punto si deve arrivare per ottenere i propri scopi?
Nicoletta M., Pesaro
Ma non era il Giappone la terra della spiritualità, della civiltà, dell’educazione maniacale, dell’esagerato rispetto, del sorriso addirittura caricaturale?
Non c’è più né Oriente né Occidente. Tutto è una grande pappa in sobbollimento, tutto è tirato per i capelli dalla confusione che si è ingenerata nelle nostre teste e sulle nostre facce, siano gialle, bianche, nere o blu. Questa storia del villaggio globale, della Terra che si sta facendo paesino, dove l’unica differenza tra un popolo e l’altro è costituita dai vestiti e dai cibi, e dove l’unica cosa che ci accomuna è la violenza e la sopraffazione, mi sembra una stronzata. Persino la mamma, ultimo stremato baluardo di “bontà” e di “saggezza”, se non di obbiettività, sembra si stia tramutando in un’alchimista costretta a tentare di costruire mostrini adatti al terreno in cui vivranno. Aiuto… il gabinetto del dottor Mabuse… ecco, ci siamo dentro.
Ho visto su una televisione straniera un servizio proprio su un asilo giapponese dove i bambini sono trattati con una crudeltà e una ferocia intollerabili. All’insegna della competizione più devastante. Li fanno stare d’inverno fuori, al freddo in pantaloncini e t-shirt di cotone, senza calzini fermi per ore e il primo che dice “ho freddo” viene punito ed escluso dal resto delle “lezioni”. Viene gratificato il vincitore e punito il perdente fino a non superare l’anno. Non posso dimenticare le faccine terrorizzate e livide dei bambini che, probabilmente, cercavano di adeguarsi e giustificare un trattamento così innaturale. Mi sono tornate in mente le espressioni dei nostri figli occidentali dopo una gara di sci o una partita di pallone perse; hanno la stessa incredula sottomissione e disperazione.
Brutta china. Sono contro la competizione. Ecco perché sono contro la competizione tra bambini. La competizione, e solo quella sportiva, può appartenere a persone adulte che hanno ormai incamerato il concetto di vincita e di perdita. Non a quelli che “devono giocare”. Ai bambini va lasciata l’autonomia nel giudicare il significato della sconfitta, in tutta calma e in tutto amore. Insomma è chiaro che, per me, “l’importante è non partecipare”.
Normale che succedano cose di questo genere? Normale che una donna strangoli la figlia di due anni di una sua amica sperando così di procurare il posto all’asilo per la sua di bambina? Temo che la risposta potrebbe cominciare ad essere “sì”. E, allora, siamo proprio arrivati.
Continuo a non capire. Continuo a voler non capire. Non mi sento di appartenere alla cerchia di quelli che, di fronte ad un omicidio qualsiasi, insinuano o proclamano di aver compreso su quale filo logico corre il delitto. Non c’è perché, non c’è spiegazione razionale che consenta di aprire un varco nel labirinto dell’animo umano. Non c’è risposta alla domanda: “per quale scopo quest’altro omicidio?”. Anche perché un delitto non giova ad altro che a portare ossigeno alla morte, e cioè alla logica perversa dell’antiuomo. Così continuo a non capire e non mi rassegno alle spiegazioni dei giornali. Mi sembrano troppo e, insieme, troppo poco definitive.
E se fosse vero? Bisognerebbe continuare ad urlare, perché forse le parole ben argomentate, i ragionamenti strutturati dal filo stringente del sillogismo sarebbero oggi incomprensibili a quest’uomo massacrato dalla demenziale indifferenza cui le ideologie della materia l’hanno costretto. Continuare a urlare. O bisognerebbe forse ricominciare tutto da capo, ridicendo l’evidenza più originaria, e cioè il fatto che prima di tutto c’è l’uomo, la vita, l’amore.