Liberal n. 47/1999
Cara Mina,
assistiamo con sempre maggiore impotenza a crolli, alluvioni e catastrofi più o meno naturali. E dopo l’emozione del momento, tutto ritorna come prima, senza nessuna certezza sulle responsabilità umane e nell’attesa di una nuova sciagura su cui versare le prossime lacrime. Non penso che si tratti di fatalità e, pur sapendo che la perfezione del vivere civile è un’utopia, credo in una forma di società in cui l’esistenza sia organizzata in modo sicuro. Sono un illuso o solo un tenace assertore della capacità umana di costruire una civiltà degna di questo nome?
Valerio I., Cremona
Vi sta bene che nessuno paghi mai? Mai nessuno? Vi sta bene che una vita sia ingoiata da un muro che crolla e che tutto il nocciolo di un’esistenza sia condensato solo in un album di fotografie impolverato da detriti e macerie? Vi sta bene che l’orrore si perpetui e che le voci dei politici, quasi annacquate dal pianto dei parenti, si levino solo per assicurare solidarietà e per promettere aiuti che si stemperano come la silhouette delle loro auto blu che si allontanano dal luogo del disastro?
Le abbiamo già sentite troppe volte queste parole di circostanza. La retorica del “mai più” è un’offesa al dolore di chi veramente soffre. E quando su un cratere di morte o in una valle sventrata dal terremoto si sentono le sirene della polizia che accompagnano l’arrivo dell’ennesimo potente di turno, ci risale dallo stomaco la lugubre certezza che la sofferenza dovrà estendersi ancora nel tempo. Per anni. Senza giustizia, senza dignità, senza rispetto. Andate a chiederlo ai terremotati dell’Umbria, che anche nel prossimo Natale si riscalderanno con le promesse di Prodi e con le rassicurazioni di D’Alema, attualmente impegnato a spiegarci se la crisi sia reale, virtuale, programmata, auspicata o se il trattino tra centro e sinistra unisca o divida i partiti della coalizione.
Vi sta bene che tutti sappiano tutto? Prima? Vi sta bene che si racconti la favola delle “nuove” droghe, quando ogni giorno muoiono tre giovani dilaniati dall’eroina? Vi sta bene che il male venga tollerato e addirittura masturbato, salvo poi montare le campagne di stampa per “tenere desta l’attenzione sul problema”?
Tra le macerie di Foggia si è consumata l’ultima delle nostre vergogne. Quelle grida spezzate, quei contenitori riempiti della quotidianità di bambini e di madri, quei giocattoli, quei quaderni, quelle camicie ancora appese e quei presepi erano una spada che tagliava la coscienza, che la feriva là dove, in tante, troppe circostanze, abbiamo dato spazio alla morte; là dove, presumendo che tutto debba essere delegato al potere, abbiamo avuto la prova che il potere non genera che cupe inadempienze, oscure incapacità, indifferenza verso l’uomo.
Siamo cenere, d’accordo. Ma vi sta bene che questa cenere sia venduta, vilipesa, maltrattata? Vi sta bene che questa cenere di cui siamo fatti sia frutto di un gioco senza senso e, alla fine, distrutta da una casualità di cui ci sfugge il significato? Siamo cenere, non merda.
La nostra “casuale” nascita viene collocata in un sistema sociale e da quel momento lo Stato ci prende in carica, come una mastodontica baby-sitterona col compito di accudirci fino alla bara. In un mostruoso disegno di norme e di convenzioni ci viene organizzata la vita e la nostra identità viene strozzata dentro un sistema che pretende di darci sicurezza e garanzie. Ma questo sitteraggio è, in definitiva, indifferente al nostro essere e, se lo si considera in tutti i suoi aspetti, non ha altra funzione che quella di essere la cupa parodia di se stesso. Tant’è vero che, guarda caso, si dimentica di controllare la stabilità degli edifici, di garantire la nostra salute, di istruirci come la nostra dignità di uomini richiederebbe. Spesso questa balia, che si prende cura dei nostri destini, ci tranquillizza avvertendoci che va tutto bene, sì… va tutto bene, che non c’è da aver paura di niente e che il lupo mannaro è solo una invenzione dei soliti profeti di sventura.
Ma la “casualità” di un crollo ci ributta drammaticamente dentro la realtà e ci fa capire che le belle storie che la nostra baby-sitterona continua a raccontarci servono solo come narcotico per coprire la congerie senza fine degli imperdonabili errori commessi.
Vi sta bene che l’inciviltà sia il nostro distintivo, che il lago di morte e di insensatezza sia l’unico specchio che riflette la nostra immagine, che l’indifferenza stia nel nostro cuore come unico antidoto all’urlo che dovrebbe invece essere gridato, in ogni istante, di fronte a tanto sfacelo?
Vi sta bene? A me no.