ELOGIO DELLA VUVUZELA

La Stampa n. 23/2010

Come un arredo, come una magnifica carta da parati, come una perfetta mise en place. L’allestimento acustico, che loro ritengono essere la perfetta accoglienza nei confronti di ospiti così importanti, ci accoglie ad ogni appuntamento. Come il salotto della signorina Gentilin dell’omonima cartoleria, che lei potrebbe approntare al meglio nell’attesa di un ospite che magari non verrà mai. Parlo de «La signorina Gentilin dell’omonima cartoleria» il cui autore mi onora della sua sfiducia, non credendo che sia proprio io a scrivere queste piccole cronache. In effetti ha ragione. È mia nonna. Ma questa è un’altra storia.
Avranno pensato, dicevo, che un sottofondo così «sostanzioso» sarebbe stato una gentilezza nei confronti di chi è abituato a giocare con l’incitamento di urla scalmanate, strombettii, tamburi e alé o o. E allora cosa hanno fatto? Hanno preventivamente registrato migliaia di vuvuzela e le hanno passate negli altoparlanti degli stadi che ospitano i Mondiali. Credendo di fare un gesto gentile, una carineria. L’altro giorno, quando in tv mi hanno fatto vedere uno stadio vuoto nel quale si sentiva ugualmente il rumore assordante di centomila trombette fantasma, dopo un attimo di spaesamento, ero combattuta tra il distraente fastidio e la tenerezza.
Fino a un attimo prima ero convinta che fossero loro, uno per uno, a suonare a pieni polmoni quello strumentino. Nella seconda partita del campionato, avendone già abbastanza, ho tolto l’audio. Poi ho pensato che loro sono duemila anni che non si divertono e sono uscita dalla modalità «mute» per partecipare alla loro festa. E il mio coté di tifosa fuori di testa ha lasciato il posto all’insano desiderio che i bafana bafana riescano a fare il miracolo e superare il turno di questo gironcino. Non solo, anche per le altre squadre africane si è prodotto in me lo stesso sdilinquimento che assomiglia a un tentativo di risarcimento.
Certo, se dovesse verificarsi un Italia-Ghana sarei costretta a tornare al solito beota tifo senza quartiere, completo delle solite urla che fanno regolarmente scappare terrorizzato il solito canetto di mia figlia che non si spiega perché da una persona, normalmente di pochissime parole sommesse, possa prodursi un suono così terrificante. Vorrà dire che oggi lo metterò lontano nella speranza di «dover» berciare a perdita di gola per un gol dell’Italia, travalicando ogni vuvuzela.

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20 Giugno 2010

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